venerdì 6 agosto 2010

Riccardo Pacifici, un viaggio intorno all'ebraismo

Per parlare con RiccardoPacifici, si entra in Sinagoga, da una porta più piccola. Siamo nel cuore della Roma ebraica, luogo che i romani non ebrei guardano a volte con timore, come fosse un monolite sganciato dal passato. Ad un uomo che appare dalla penombra esibisco il passaporto, con tanto di timbro israeliano che lui registra con un sorriso enigmatico: “Sì, sono stata in Israele..più volte”. Tutti parlano a voce bassa, qui. Anche le scale sono piccole e strette. Come in un libro di Kafka, penso. Non il Castello, non il Processo, no. Come nei Diari. Le cose piccole e strette, di luminescenza chiaroscurale. Al piano di sopra, lo spazio si stende. La stanza in cui lavora Pacifici, 46 anni, presidente della Comunità Ebraica di Roma dal 2008, non è diversa da qualsiasi altra stanza di un moderno ufficio di una grande metropoli. Sopra la scrivania, c’è una foto di Giorgio Napolitano. Tiro un respiro di sollievo. Ci immaginavamo una parete piena della interminabile serie Pacifici-Alemanno, Alemanno-Pacifici....

Perché tutte queste foto con Alemanno? Sembra che i giornali romani che non ne abbiano altre da pubblicare...

Il paradosso è che io avevo votato Rutelli, cosa che Alemanno sa. E’ che nel tempo abbiamo costruito un ottimo rapporto. Ho parlato a lungo con Alemanno, e ha ammesso di essere cresciuto per tanto tempo con un’idea sbagliata in merito alla questione ebraica. Quando è andato ad Auschwitz, mi ha chiesto in lettura dei libri sulla questione ebraica e la persecuzione italiana durante la Shoah. Ha riconosciuto apertamente la responsabilità del fascismo nella persecuzione degli ebrei. Sono fatti importanti. Ho potuto apprezzare diverse volte in Alemanno una grande capacità di ascolto.

Quindi lei non è un uomo di destra, come si dice...

Lo chieda a Boccacci e ai suoi amici di Militia che mi vorrebbero fare la pelle. E’ paradossale ma trovo il mio nome anche come “nemico” sia nei centri sociali più radicali di sinistra che nei siti dell’estremismo islamico. E la cosa mi ha sorridere.

Come si è andata costruendo l’amicizia tra lei e il Sindaco di Roma?

Inizialmente, in campagna elettorale ho avuto un ruolo nell’impedire l’apparentamento con Storace. Se Alemanno (come poi è stato) voleva liberarsi dalla sua passata militanza e intraprendere la strada che stava indicando Fini, non poteva allearsi con una forza politica guidata in quel momento da Storace e dalla Santanché, che avevano dato risposte ambigue sull’antifascismo. Vede, io credo che il ruolo di noi ebrei sia quello di trasmettere dei valori, una certa idea dello Stato e dell’impegno sociale. E devo dire che il sindaco Alemanno ha creato con la nostra Comunità un rapporto reale, non retorico.

Quanto è cambiata la sua vita da quando è sotto scorta?
La scorta ce l’avevo anche prima di assumere l’incarico attuale, ma è stata confermata dopo le minacce da parte dell’estrema destra. Non è facile portare i bambini a scuola con la scorta e dover spiegare continuamente perché si debba vivere in questo modo. Per alcuni loro compagni, la scorta è uno status symbol, ma non per i miei bambini che vorrebbero vivere più liberi. Il problema è anche per gli uomini della scorta. Anche loro hanno mogli e figli. Anche loro sono padri di famiglia. Ed io cerco di averne rispetto.

Pacifici è un nome importante nella storia delle grandi famiglie ebree...

Mio nonno era rabbino capo a Genova ed è morto ad Auschwitz. Anche mia nonna, in seguito ad una delazione di italiani (si era rifugiata nel convento delle Suore del Carmine a Firenze e fu catturata da giovani militi fascisti) fu deportata nello stesso campo. Non sappiamo se si siano incontrati. Di sicuro sono stati uccisi tutt’e due ad Auschwitz. Una storia come questa mi chiama ad una responsabilità costante nei confronti della Memoria. E di certo rende impossibile che io possa mai fare sconti ai fascisti, anche quelli di oggi. In Italia, il fascismo non è stato, come molti sostengono, una dittatura all’acqua di rose che ha emulato malamente il nazismo, ma una dittatura terribile. I fascisti collaborarono attivamente alla deportazione degli ebrei e degli oppositori politici...I miei nonni lasciavano orfani due bambini, uno di dodici anni, l’altro di cinque. E qui comincia la storia di mio padre.

Che ebbe una deviazione tragica nel giorno dell’attentato alla Sinagoga...

Si, nell’attentato del 1982 a Roma è stato colpito da una bomba che gli è esplosa dentro lo stomaco. Mio padre tuttora vive senza massa muscolare nell’addome. Ha la gola totalmente squarciata. E’ pieno di schegge nel corpo. Ha subìto traumi anche agli occhi.

Che ricordi ha di quel momento?

Mio padre che sta tra la vita e la morte...non sono cose che si possono dimenticare...Allora facevo la quinta liceo. E ho dovuto mettermi a lavorare. La mattina studiavo, di pomeriggio lavoravo sostituendo come agente di commercio (nel settore dell’abbigliamento), cosa che continuo a fare.

I sui figli studiano alla scuola ebraica?

Certamente.

Scusi, perché certamente? Non possono andare alla scuola pubblica?

E’ stata una scelta mia e di mia moglie:, quella di dare ai nostri figli un’educazione ebraica. Inoltre, le scuole ebraiche sono equiparate alle scuole pubbliche e sono diverse dalle scuole confessionali.

Anche lei ha studiato alla scuola ebraica?

Ho studiato alla scuola ebraica fino alla terza media e poi ho frequentato la scuola pubblica.

Ricordo un episodio che accadde in quegli anni al Virgilio, il liceo che frequentavo io: buttarono una ragazza ebrea giù dalle scale. Scoppiò un finimondo.

Si, Paola Caviglia, che in quel periodo si misurava con la versione teatrale del “Diario di Anna Frank”...Me lo ricordo bene quel fatto. Allora frequentavo il Galileo Ferraris, e venni al Virgilio come rappresentante degli studenti ebrei. Io non ero un ragazzo di sinistra, ma i miei compagni di sinistra, “i capelloni”, in quegli anni mi proteggevano e mi scortavano fino a casa. Poi le cose sono cambiate. Io volevo abbandonare la scuola e l’ultimo anno di liceo l’ho fatto al Rosolino Pilo, a Monteverde: lì l’ambiente era di destra e i “compagni” di sinistra mi erano contro a causa dell’operazione “Pace in Galilea” dell’’82 e della strage di Chabra e Chatila.

Lei è stato per tanti anni anche il portavoce della Comunità Ebraica Romana, ruolo che si è inventato di sana pianta...

Sì, da 17 anni sono consigliere della Comunità e sono stato anche vicepresidente. Quello che è sempre mancato è proprio il ruolo di un portavoce, cioè di qualcuno che non tenesse i rapporti non solo con i media, ma anche con la società civile e con il Paese.

Lei è sionista, immagino.

Certo. Uno dei più grandi errori della sinistra è di pensare che il sionismo nasca nel 1948 quale “compensazione” dell’Occidente, o meglio dell’Europa, a favore del popolo ebraico e a danno del popolo palestinese. L’idea del sionismo, di cui anche mio nonno fu artefice, nasce ai primi del Novecento e fa parte della tradizione del culto ebraico, laddove ognuno prega tre volte al giorno rivolgendosi verso Sion, che è la collina dove è sorta Gerusalemme..

Però ci sono stati nella storia degli intellettuali alcuni ebrei come Hannah Arendt che, dopo averlo a lungo frequentato, dissero no al sionismo.

Anche Hannah Arendt ha recitato “L’anno prossimo a Gerusalemme”, la formula con cui si chiude la festa pasquale...Questo per dire che il sionismo è molto legato alla nostre tradizioni. Per noi i gesti tradizionali sono molto importanti. Anche l’ebreo più laico del mondo, quello che mangia il prosciutto, due cose le fa sempre: il digiuno del Kippur e la Cena Pasquale E voglio ricordare una cosa: il sionismo politico, paradossalmente, nasce tra gli ebrei non osservanti, tra gli ebrei socialisti...

Va spesso in Israele?

Si, anche perché ha una sorella che vive ad Afula, nel Nord. Ha sposato un ebreo marocchino.

Mi è capitato di andare spesso a Gerusalemme e non mi è sembrato un luogo di contemplazione spirituale: è una città militarizzata, con leggi molto terrene e trame vistosamente politiche. Lei come la vive?

Fuori dalla mura di Gerusalemme c’è di tutto. Mentre dentro Gerusalemme io provo ancora un incanto per la sua musicalità. Quando ci sono stato l’ultima volta con Renata Poverini e abbiamo visitato il museo di Yed Vashem, per rifare il percorso dei Giusti, anche lei era rimasta colpita dai suoni della città. Ti capita di stare dentro il Muro Occidentale (che non si chiama Muro del Pianto, come molti sbagliando dicono) e venire travolti dal canto dei muezzin.... E’ questa la cosa magnifica di Gerusalemme.

Ecco, Renata Polverini: avete mai parlato della foto con il braccio teso, scattata la sera della sua elezione a presidente della Regione Lazio? Lei ha sempre smentito che alludesse al saluto fascista, ma quell’immagine continua a girare per la rete in modo subliminale.

Certo che ne abbiamo parlato. Lei ha categoricamente smentito, anche perché mi ha raccontato che sua madre quando era bambina l’ha portata in visita in cinque diversi campi di concentramento, perché sapesse cosa era accaduto agli ebrei. E’ stata educata in questo modo.


Parliamo dell’altra metà di Israele. Ammetterà che esiste una “questione palestinese”....

Certo. Ma la cosa si può analizzare in due modi. Seguendo una traccia storica che è molto complessa rispetto a come la propaganda pro-Palestina vorrebbe farci credere. Oppure ragionando in termini di realpolitik.

Mi fermerei alla realpolitik.

Il problema più grande è quello dei campi profughi, ed in questo senso esiste anche una nostra responsabilità: dobbiamo contribuire a portare una soluzione. Non c’è nessun leader oggi sia del mondo ebraico della diaspora, sia israeliano – tranne qualche eccezione – che non parli della legittimità di uno Stato Palestinese accanto allo Stato d’Israele. Il problema è che c’è bisogno di due Stati, due Popoli, e anche di due Democrazie. Se Hamas dovesse arrivare a governare lo Stato Palestinese, si avrebbe un regime teocratico in cui le libertà e i diritti sarebbero negati, così come già sta avvenendo a Gaza.

Quale è la sua opinione sugli insediamenti?

Se dobbiamo ragionare per la pace, allora per la pace i settlers dovrebbero tutti tornare a casa, così com’è stato fatto con l’evacuazione di Gaza con Sharon. Però mi faccio una domanda: perché un cittadino di origine palestinese può vivere tranquillamente, per esempio, a Giaffa, godendo di pari diritto, mentre ad un cittadino israeliano verrebbe vietato di vivere in un futuro Stato Palestinese? Se io oggi andassi a Ramallah, non riuscirei a passare la notte. Forse sono le mie paure, le mie angosce, però dobbiamo farci anche queste domande. Io sono piuttosto aperto al dialogo, ma come è possibile che ancora oggi la tv di Abu Mazen continui a trasmettere programmi sui bambini che diventano martiri? Nonostante ciò, continuo a ripetere che, per ragioni di realpolitik, si debba arrivare alla creazione di uno Stato Palestinese.

Che rapporto ha con Bertinotti?

Mi ricordo di aver partecipato qualche anno fa ad una trasmissione televisiva alla quale eravamo stati invitati entrambi. Mostrarono un filmato che era stato mandato ad uno dei congressi di Rifondazione in cui di fatto venivano equiparati i campi palestinesi ai capi di sterminio nazista. Mi colpì la posizione di Bertinotti. Di fronte ala nostre proteste, ammise che non aveva visto prima il filmato. Introdusse un elemento di dubbio. Io gli dissi che il Partito avrebbe avuto la necessità di immaginare una sua Fiuggi, come aveva fatto Fini, e lui accettò la proposta, a patto che ritirassi il paragone con Fiuggi. Non tutta Rifondazione Comunista ha metabolizzato la linea bertinottiana, che però è diventata una parte della tesi, e quindi imprescindibile.

Non so se lei può spiegarmi questo strano fenomeno, ma è da anni che mi chiedo: perché così tanta gente arriva ad inventarsi un nonno o un lontano parente ebreo? Perché le conversioni (che non sono molte ma ci sono) dal cattolicesimo all’ebraismo? Senso di colpa? Reale convinzione? Desiderio di appartenere ad una comunità forte con le sue regole e i suoi poteri?

La ringrazio molto di avermi fatto questa domanda. In Europa e in Italia (che è un paese molto cattolico) si è diffusa la convinzione che gli ebrei siano delle povere vittime e che a noi alla fine tutto sia permesso. L’ebreo può vivere con un senso di “immunità” maggiore. Si ritiene che dichiarando di essere ebreo entri più facilmente nei salotti che contano.

E non è vero forse?

Si, è vero. Ed è anche vero che è questo è un fatto molto grave. Soprattutto può ribaltarsi in un boomerang micidiale per noi. L’ingresso nell’ebraismo deve essere frutto di una forte convinzione. Certo non deve servire per emergere ai danni degli altri.

Nell’immaginario collettivo, però la Comunità Ebraica è una comunità chiusa, in un certo modo impenetrabile.

Il compito che mi sono prefisso assieme a tutto l’esecutivo della nostra Comunità, consiste proprio in questo: la Comunità deve servire a costruire l’identità facendo capire ai nostri ragazzi che senza il dialogo e senza il confronto non si costruisce nulla.

(Pubblicato su "Gli Altri")

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