mercoledì 19 giugno 2013

Massimo Carlotto parla delle sue "Vendicatrici": "Alle donne il compito di riaprire il conflitto"

 

Due uomini che raccontano di donne non come vittime ma come vendicatrici. Un romanziere (e drammaturgo) e uno sceneggiatore che, andando contro la corrente, non abbracciano il catastrofismo, non ci seducono doppiando in forma bella il crimine del reale, ma vanno immaginando quello che potrebbe accadere se le donne si unissero e si ribellassero. Una rivoluzione, praticamente. La rivoluzione. Dietro la quadrilogia di Massimo Carlotto e Marco Videtta (Le vendicatrici, Einaudi), c’è una visione politica, e una frequentazione del sottosuolo. Un po’ come facevano Baudelaire e gli scrittori francesi che abbiamo tanto ammirato, i due autori si sono messi ad ascoltare la lingua del mondo di sotto e, una volta risaliti in superficie, hanno forgiato le immagini di quattro donne capaci di reazione, attorno alle quali si muove un esercito di uomini sbagliati. Ksenia, la prima ribelle, ha avuto il suo personale consenso. E c’è da immaginare che l’avranno anche le altre donne stanche di subire violenza, Luz, Eva, e anche Sara, che porterà il mistero più grande, ma solo alla fine della “saga”. Della sua genesi e della sua emersione parliamo qui con Massimo Carlotto: ed è l’occasione per discutere anche di altro, di Roma, per esempio, e di questa nuova fase italiana di conflitto sociale. Ma anche del segreto di una vita come la sua, che al suo punto d’origine ha una vicenda terribile e rocambolesca (raccontata nel Fuggiasco) ma che è stata poi travolta da mille altre figurazioni che lo scrittore e l’uomo hanno saputo costruire, perché «se di vita ce né una sola, di esistenze ce ne sono tante».


Carlotto, come è apparsa l’immagine delle “Vendicatrici”?


Tre anni fa con Marco Videtta abbiamo cominciato a ragionare sulla relazione tra mondo femminile e crisi economica. Abbiamo capito come la crisi stesse ulteriormente erodendo i diritti delle donne, attraverso il ricatto economico.  E che di conseguenza l’escalation di violenza contro le donne avrebbe arricchito molto la cronaca degli anni a seguire.  E su questo abbiamo pensato di costruire un romanzo, anzi quattro romanzi.

Che parlano di donne abusate ma soprattutto di uomini sbagliati.

Il mondo è pieno di uomini sbagliati. Questi uomini sbagliati dominano la vita di altrettante donne in maniera assolutamente devastante. Si, la riflessione era proprio questa: il mondo maschile è evidentemente in crisi e mostra tutta la sua fragilità. L’uomo non riesce più a proporsi in maniera positiva e ha bisogno di imporsi attraverso il dominio, il possesso. Non sa vivere senza punti di riferimento e non è in grado di ricominciare.

Questa violenta fragilità del maschile è oggi solo più evidente, nelle sue denunce e narrazioni ,oppure è esplosa come non era mai successo prima?

Il modello dominante è stato quello patriarcale, e oggi il fallimento di questo modello è talmente evidente che sono saltati i pilastri e i lacci che lo reggevano. La contraddizione è esplosa. Quindi l’idea era questa: scriviamo non un romanzo ma quattro romanzi per raccontare la vita delle donne ma anche e soprattutto la storia degli uomini sbagliati.

Come e quando verranno a farci visita le vostre vendicatrici?

Dal materiale che è emerso abbiamo individuato quattro filoni: la disperazione delle straniere che le spinge a sposare un italiano (le spose siberiane);il gioco d’azzardo raccontato attraverso la figura di Eva; il mondo della prostituzione (la colombiana Luz); infine c’è il personaggio di Sara, che porta in sé un grande mistero. Ksenia e Luz sono straniere, Sara ed Eva sono romane. A maggio è uscito il primo romanzo, a giugno il secondo, il terzo uscirà a settembre e il quarto infine è previsto in libreria per novembre. Era importante che uscissero in tempi ravvicinati.

Il motivo della vendetta è un motivo ancestrale. Perché avete deciso di lavorare su un elemento così arcaico, irriducibile ad altro?

E’ vero che il tema della vendetta è un tema arcaico, ma le nostre vendicatrici non si vendicano solo perché è giusto e necessario. Le loro azioni sono un primo passo verso il riscatto, verso una vita degna. Per noi la vendetta è la ribellione delle vittime. Se oggi il mondo femminile non apre un conflitto con questi uomini sbagliati, avremo sempre e solo una situazione di difesa ma non la soluzione del problema.

Che è anche un modo per uscire dal vittimismo.

Esattamente.  Sulle vittime e sul vittimismo il discorso sarebbe lungo. Ma quello che è sicuro è che le donne vivono una grande solitudine.

Ksenia, Eva, Luz e Sara che soluzione trovano alla tragedia della solitudine?

Sono un gruppo di donne che si mettono insieme e proprio nell’unione trovano la forza per salvaguardare i sentimenti più forti: l’amore, l’amicizia, la solidarietà, il senso della vita. La vita diventa un progetto che diventa realizzabile solo nell’unione.  Il primo passo è affrancarsi da questi uomini sbagliati e per affrancarsi le donne non possono che passare però attraverso una inziale difesa.

La solitudine è l’arteria che infetta l’organismo malato del Paese…

E’ così. Se pensiamo che solo a Roma ci sono 3.500 sale da gioco, tra slot machine e affini. Per raccogliere il materiale per Le vendicatrici, abbiamo passato molto tempo dentro i bingo, frequentati da uomini e donne, e lì tocchi con mano quanto sia devastante la solitudine. Il gioco è diventato un modo per tenere in piedi un’esistenza che non ha riparo e sostegno da nessuna parte.  Quindi, da una parte c’è la tragedia della solitudine, e dall’altra c’è una generale incapacità di reazione alla crisi.  Roma produce grandissima solitudine, è la città stessa a produrre separazione. Vuol dire che questo modello sociale è completamente fallito. E le donne sono i soggetti più a rischio. Per superare la solitudine sono pronte ad accettare situazioni terribili.

Perché poi alle volte il tuo carnefice si traveste da protettore e ti  fa sentire “in famiglia”, come se la famiglia fosse sempre una cosa bella, mentre è proprio lì dentro che si sviluppano i sistemi più sofisticati di potere e sopraffazione.

Nelle Vendicatrici cerchiamo proprio di mettere  a nudo tutti questi meccanismi di falsa protezione. La cosa nuova è proprio il punto di vita: il racconto di chi poteva essere una vittima totale e invece, alleandosi con altre donne, si ribella e in questo modo cambia il proprio destino.

E per costruire i ritratti degli uomini sbagliati a quale mondo avete fatto riferimento?

In questi quattro romanzi abbiamo definito in maniera molto chiara quello che non ci piace degli uomini. Ci sono tantissimi personaggi e ognuno di loro, senza essere uno stereotipo, rappresenta un aspetto che ci interessava raccontare: il rapporto tra gli uomini e il sesso, per esempio. Quello che narriamo del mondo della prostituzione si basa sulle innumerevoli interviste che abbiamo fatto ad alcune professioniste del sesso. Questo per dire che le figure descritte sono assolutamente reali. Naturalmente c’è anche molta ironia nella descrizione di una certa romanità.

Crede che questo sia un momento storico di nuova conflittualità sociale? E come si manifesta rispetto agli anni caldi della contestazione di cui lei, come giovanissimo militante di Lotta Continua, negli anni Settanta era stato protagonista?

Per molti anni, il noir per me è stato uno strumento straordinario per raccontare la crisi, il suo arrivo e la sua conclamazione. In questa fase della storia italiana, è importante però passare dalla letteratura della crisi alla letteratura del conflitto.  Questi quattro romanzi raccontano proprio il conflitto nato dalla crisi, che non è solo un conflitto di tipo sociale ed economico, ma è anche antropologico, culturale. Perché la crisi sta modificando tutto. Parlare esplicitamente della condizione femminile significa entrare nel cuore della letteratura del conflitto. Io penso che il conflitto oggi sia una dimensione generalizzata che però ha molte sfaccettature. Per esempio il come le persone vivono le crisi è in sé e per sé una forma di conflitto perché porta modificazioni antropologiche. Per quel che riguarda la condizione femminile, l’emergenza della cronaca è solo la punta dell’iceberg. Perché quando tre anni fa avevamo intuito che si sarebbe arrivato a questo tipo di violenza contro le donne, ci eravamo posti l’obiettivo di raccontare quello che c’è sotto. Quello che c’è in superficie, la cronaca, non basta. Molti autori e molte autrici stanno narrando questi fatti di cronaca, ma a noi non sembrava sufficiente. Quello che a noi premeva era di dire in maniera molto chiara che oggi le donne devono aprire un conflitto nei confronti di questo mondo maschile sbagliato. Questo è un compito che si devono assumere sia uomini che donne. L’idea delle vendicatrici è un’idea politica.


Nel primo romanzo si parla di via Merulana. E’ lì che avete vissuto per fare la vostra ricerca sul campo?


La nominiamo soprattutto come omaggio a Gadda, al Pasticciaccio brutto di via Merulana. Diciamo che la protagonista è la città di Roma, una città in cui la violenza è riesplosa a livelli incredibili.


Il film di Sorrentino ha fatto puntare i riflettori di nuovo su Roma e sui suoi feroci e sublimi contrasti. Roma della grande bellezza e Roma delle grandi miserie. Che Roma è quella che conosce lei?

Anche se vivo a Padova, Roma la conosco bene perché l’ho frequentata fin da bambino (ci vivono  alcuni parenti), e poi ci lavoro perché l’agenzia , le case editrici e le case di produzione con cui collaboro sono tutte a Roma. E’ una città che amo moltissimo. Ma è anche una città che mi ha colpito nella sua trasformazione negativa. Il mio è un giudizio anche politico, perché penso che la giunta Alemanno abbia spalancato le porte al peggio. Con una congiuntura criminale di un certo tipo: riciclaggio, corruzione anche nelle istituzioni. Imprenditoria, finanza e politica sono diventati i luoghi dove meglio si infiltrano le mafie.  Roma è stata la prima città d’Italia che ha reso palese e profonda per esempio la trasformazione del mondo dell’usura. Non è più una dimensione di quartiere, ma è diventato un collettore di soldi che poi vanno a finanziare determinate situazioni: così l’usuraio si è trasformato in una banda. Nato a Roma, questo modello si è espanso e ha infettato tutto il territorio nazionale. Questo per dire che evidentemente a Roma c’è una situazione sociale allarmante che ha portato a una  trasformazione criminale diventata un prototipo.

C’è una domanda che avrei sempre voluto farle. Quale è stata la chiave di volta affinché la sua lunga e travagliata vicenda originaria che ha raccontato nel “Fuggiasco” non arrivasse a schiacciarla ma diventasse invece combustibile per una svolta autoriale, consapevole? Come è diventato lucido testimone dell’assurdo?

Non lo so. Sono passati quarant’anni dall’inizio della vicenda e vent’anni dalla fine. E’ una vita fa. Io non ci ho più pensato. Nel momento in cui ho scritto l’ultima pagina del Fuggiasco, ho chiuso con quella vicenda. Ho chiuso con quella esistenza. Perché c’è una vita sola ma le esistenze possono essere molte.

Cosa rappresenta il teatro per lei?

Una cosa di cui ho bisogno per vivere. Io devo scrivere almeno un testo teatrale all’anno. E’ una gioia incredibile. Credo che il teatro sia la forma artistica più vitale e interessante. Oltre alla letteratura, ovviamente.

(Pubblicata sul settimnale "Gli Altri")

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