La notizia della morte di Luca Ronconi è arrivata in
tarda serata. Molti di coloro che lo conoscevano e l’amavano sono rimasti
svegli tutta la notte. Alcuni si sono scritti e parlati, altri hanno scelto di
stare soli, con le proprie eredità.
Personalmente, ricordo di aver fatto sempre questo pensiero:
Ronconi se ne andrà nel mezzo della fabbricazione di un’opera, pensando alla
successiva. Non permetterà alla morte di venirsi a prendere un uomo con la
mente oscurata, con il corpo impietrito. Il pensiero non si spegnerà prima
dell’ultimo soffio. Non accadrà. E così è stato.
Luca Ronconi è stato un inventore di forme, un avanguardista, un
maestro, un pensatore, il più grande filologo della scena: ereditando l’idea di
regia critica di Strehler e Grassi, ha portato un contributo storico e decisivo
alla storia dell’arte teatrale. Ha firmato più di cento spettacoli, e ogni
volta ci trovavi dentro un tesoro, un pezzo di mondo dentro cui fare un
viaggio. Lui ci teneva a dire che ogni spettatore aveva il diritto di
vedere quello che più desiderava, che non c’era una strada maestra
all’interpretazione: «Se a vedere lo spettacolo ci sono quella sera mille
persone, allora vuol dire che ci sono mille pubblici. Quando parlo di percorso
di conoscenza, alludo a qualcosa che avviene tra persone che non si conoscono,
non tra persone che si conoscono». Una idea che trovava la propria eco in
un’altra teoria, e cioè che il teatro insegni a conoscere ciò che prima non si
conosceva. Parlava di se stesso, ovviamente. Ogni volta, Ronconi si disponeva
di fronte ai materiali della creazione con lo spirito di un esploratore, non
sapendo assolutamente quello che avrebbe trovato. Il suo rapporto con i saperi
era perciò di tipo artistico, e non dogmatico né professorale. Poiché non
supponeva mai di aver capito, continuava ad interrogare materiali letterari,
scientifici, poetici, economici, senza sosta. Da ragazzo - ce lo raccontò
nel corso di una recente intervista - aveva letto moltissimo: «In quegli
anni (terribili) dell’immediato dopoguerra, si leggeva. Negli anni 40-45
ho letto l’ira di Dio, non capendo niente. Però sai che forse uno impara a
sapere prima che a capire?».
«Luca Ronconi è il giovane artista più sperimentale che io abbia
trovato nella mia appassionata frequentazione del teatro d’avanguardia (dove
vedo pullulare tantissimi “giovani vecchi» ci aveva detto qualche giorno fa
Stefano Massini, l’autore di "Lehman Trilogy", lo spettacolo ancora
in scena al Piccolo di Milano per la regia, appunto di Ronconi.
Eppure il maestro era malato da tanti anni. Ma conviveva con la
sua malattia. E anche di questo parlammo, quella volta che l’andai a trovare a
Santa Cristina, la sua scuola d’alta specializzazione attoriae, nell’estate del
2011, mentre stava mettendo in prova "I sei personaggi in cerca
d’autore" con gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico.
«La dialisi è un trattamento molto defatigante, ma è una condizione che ho
accettato». Poteva farlo solo anche perché non aveva smesso di lavorare: «Il
teatro l’ho sempre pensato come un lavoro. E’ il mio lavoro. Questo mio modo di
fare mi dà equilibrio, mi fa star bene. Se hai il successo e hai paura di
perderlo, stai male. Se tu non ce l’hai, soffri ugualmente. Dovevo uscire da
questo pericolo e ci sono riuscito presto».
All’inizio della sua carriera, Luca Ronconi fece per qualche
anno l’attore. Nato a Tunisi nel 1933, si trasferì con la famiglia
a Roma, dove frequentò l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica,
diplomandosi nel 1953. Esordì subito dopo in "Tre quarti di luna" di
Luigi Squarzina, diretto dallo stesso Squarzina e da Vittorio Gassman. Dopo
dieci anni fece la sua prima regia. Nel 1969 fece esplodere nell’aria una
specie di bomba. L’"Orlando furioso" di Ariosto, nella versione di Edoardo
Sanguineti, nato come fatto sperimentale nella chiesa di San Nicolò
al Festival di Spoleto, segnò un punto di non ritorno nella storia del
teatro contemporaneo: per l’uso prodigioso della macchina scenica (come
diventare i cavalli di guerra?), combinato all’intelligenza del lavoro
filologico sul testo. La versione televisiva andò in onda per cinque puntate
nel 1975 la domenica in prima serata: un episodio unico in cui il teatro
”invadeva” la televisione.
Un altro lavoro monumentale nella sua mobilità sarà realizzato
da Ronconi molti anni più tardi, e facciamo riferimento a "Gli ultimi
giorni dell’umanità" che “invadeva”, anche lì, uno spazio, in quel caso il
Lingotto di Torino, sconvolgendo gli spettatori con un esempio di opera barocca
sul filosofico testo di Karl Kraus. Direttore del Piccolo di Milano accanto a
Sergio Escobar dal 1998, il regista romano (confessava che lui era molto legato
alla sua città: «Io penso in romano, dirigo in romano, perché ho bisogno del
disincanto e dell’ironia che si porta dietro quel modo di pensare») era già
stato alla guida dei maggiori stabili italiani. Negli anni in cui aveva diretto
il Teatro di Roma (dal 1994 al 1998), mise in scena "Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana": la relazione tra la figura lo spazio e la parola
raggiungeva in quell’opera una sintesi artistica che impressionò anche i più
accesi e intransigenti cultori di Gadda.
L’anno scorso, si imbarcò in una curiosa impresa dal titolo
"Pornografia". Chi guarda chi, chi uccide chi? Le domande di cui
Gombrowicz affollava le pagine del suo romanzo venivano raddoppiate dalla
regia. Per dire che alla fine non c’è soluzione al rebus dell’esistenza. Poiché
l’intelligenza non dà conforto, al contrario è capace di creare sempre nuovi
tranelli e sotterfugi.
Era un messaggio che Ronconi giovane dava a se stesso da
vecchio. Per sorridere anche della propria condizione, con vigore
intellettuale: «Il teatro è ludico. E io sono un po’ burlone. Ti pare che
avrei passato tutti questi decenni ad occuparmi di teatro dalla mattina alla
sera, se mi fossi rotto,le palle»? ci disse quella volta, parlando della
pratica analitica del teatro.
«Il teatro è prima di tutto conoscenza, dopo ma molto dopo viene
la comunicazione»: era una cosa che ripeteva sempre.
Andandosene,
Ronconi ha portato con sé la conoscenza. A noi non è rimasta che la
comunicazione. Più orfani di così.
(pubblicato su "Il Garantista")
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