giovedì 26 febbraio 2015

Luca Ronconi: ci insegnò che il teatro è conoscenza

La notizia della morte di Luca Ronconi è arrivata in tarda serata. Molti di coloro che lo conoscevano e l’amavano sono rimasti svegli tutta la notte. Alcuni si sono scritti e parlati, altri hanno scelto di stare soli, con le proprie eredità. 
Personalmente, ricordo di aver fatto sempre questo pensiero: Ronconi se ne andrà nel mezzo della fabbricazione di un’opera, pensando alla successiva. Non permetterà alla morte di venirsi a prendere un uomo con la mente oscurata, con il corpo impietrito. Il pensiero non si spegnerà prima dell’ultimo soffio. Non accadrà. E così è stato. 
Luca Ronconi è stato un inventore di forme, un avanguardista, un maestro, un pensatore, il più grande filologo della scena: ereditando l’idea di regia critica di Strehler e Grassi, ha portato un contributo storico e decisivo alla storia dell’arte teatrale. Ha firmato più di cento spettacoli, e ogni volta ci trovavi dentro un tesoro, un pezzo di mondo dentro cui fare un viaggio.  Lui ci teneva a dire che ogni spettatore aveva il diritto di vedere quello che più desiderava, che non c’era una strada maestra all’interpretazione: «Se a vedere lo spettacolo ci sono quella sera mille persone, allora vuol dire che ci sono mille pubblici. Quando parlo di percorso di conoscenza, alludo a qualcosa che avviene tra persone che non si conoscono, non tra persone che si conoscono». Una idea che trovava la propria eco in un’altra teoria, e cioè che il teatro insegni a conoscere ciò che prima non si conosceva. Parlava di se stesso, ovviamente. Ogni volta, Ronconi si disponeva di fronte ai materiali della creazione con lo spirito di un esploratore, non sapendo assolutamente quello che avrebbe trovato. Il suo rapporto con i saperi era perciò di tipo artistico, e non dogmatico né professorale. Poiché non supponeva mai di aver capito, continuava ad interrogare materiali letterari, scientifici, poetici, economici, senza sosta. Da ragazzo - ce lo raccontò  nel corso di una recente intervista - aveva letto moltissimo: «In quegli anni (terribili) dell’immediato dopoguerra, si leggeva.  Negli anni 40-45 ho letto l’ira di Dio, non capendo niente. Però sai che forse uno impara a sapere prima che a capire?».
«Luca Ronconi è il giovane artista più sperimentale che io abbia trovato nella mia appassionata frequentazione del teatro d’avanguardia (dove vedo pullulare tantissimi “giovani vecchi» ci aveva detto qualche giorno fa Stefano Massini, l’autore di "Lehman Trilogy", lo spettacolo ancora in scena al Piccolo di Milano per la regia, appunto di Ronconi. 
Eppure il maestro era malato da tanti anni. Ma conviveva con la sua malattia. E anche di questo parlammo, quella volta che l’andai a trovare a Santa Cristina, la sua scuola d’alta specializzazione attoriae, nell’estate del 2011, mentre stava mettendo in prova  "I sei personaggi in cerca d’autore" con gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. «La dialisi è un trattamento molto defatigante, ma è una condizione che ho accettato». Poteva farlo solo anche perché non aveva smesso di lavorare: «Il teatro l’ho sempre pensato come un lavoro. E’ il mio lavoro. Questo mio modo di fare mi dà equilibrio, mi fa star bene. Se hai il successo e hai paura di perderlo, stai male. Se tu non ce l’hai, soffri ugualmente. Dovevo uscire da questo pericolo e ci sono riuscito presto».
All’inizio della sua carriera, Luca Ronconi fece per qualche anno l’attore. Nato a Tunisi nel 1933, si trasferì  con la famiglia  a Roma, dove frequentò l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, diplomandosi nel 1953. Esordì subito dopo in "Tre quarti di luna" di Luigi Squarzina, diretto dallo stesso Squarzina e da Vittorio Gassman. Dopo dieci anni fece la sua prima regia. Nel 1969 fece esplodere nell’aria una specie di bomba. L’"Orlando furioso" di Ariosto, nella versione di Edoardo Sanguineti,  nato come fatto sperimentale nella chiesa di San Nicolò  al Festival di Spoleto, segnò un punto di non ritorno nella storia del teatro contemporaneo: per l’uso prodigioso della macchina scenica (come diventare i cavalli di guerra?), combinato all’intelligenza del lavoro filologico sul testo. La versione televisiva andò in onda per cinque puntate nel 1975 la domenica in prima serata: un episodio unico in cui il teatro ”invadeva” la televisione. 
Un altro lavoro monumentale nella sua mobilità sarà realizzato da Ronconi molti anni più tardi, e facciamo riferimento a "Gli ultimi giorni dell’umanità" che “invadeva”, anche lì, uno spazio, in quel caso il Lingotto di Torino, sconvolgendo gli spettatori con un esempio di opera barocca sul filosofico testo di Karl Kraus. Direttore del Piccolo di Milano accanto a Sergio Escobar dal 1998, il regista romano (confessava che lui era molto legato alla sua città: «Io penso in romano, dirigo in romano, perché ho bisogno del disincanto e dell’ironia che si porta dietro quel modo di pensare») era già stato alla guida dei maggiori stabili italiani. Negli anni in cui aveva diretto il Teatro di Roma (dal 1994 al 1998), mise in scena "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana": la relazione tra la figura lo spazio e la parola raggiungeva in quell’opera una sintesi artistica che impressionò anche i più accesi e intransigenti cultori di Gadda. 
L’anno scorso, si imbarcò in una curiosa impresa dal titolo "Pornografia". Chi guarda chi, chi uccide chi? Le domande di cui Gombrowicz affollava le pagine del suo romanzo venivano raddoppiate dalla regia. Per dire che alla fine non c’è soluzione al rebus dell’esistenza. Poiché l’intelligenza non dà conforto, al contrario è capace di creare sempre nuovi tranelli e sotterfugi. 
Era un messaggio che Ronconi giovane dava a se stesso da vecchio. Per sorridere anche della propria condizione, con vigore intellettuale:  «Il teatro è ludico. E io sono un po’ burlone. Ti pare che avrei passato tutti questi decenni ad occuparmi di teatro dalla mattina alla sera, se mi fossi rotto,le palle»? ci disse quella volta, parlando della pratica analitica del teatro.
«Il teatro è prima di tutto conoscenza, dopo ma molto dopo viene la comunicazione»: era una cosa che ripeteva sempre. 
Andandosene, Ronconi ha portato con sé la conoscenza. A noi non è rimasta che la comunicazione. Più orfani di così.
(pubblicato su "Il Garantista")

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