Kelly stava aspettando nella sua cella che la
venissero a chiamare. Mancavano solo quattro ore al momento fissato per la sua
esecuzione. Quando è arrivato un contrordine. No, Kelly non deve morire. Non
ora, almeno. Perché non è sicuro che i farmaci che verranno utilizzati per
l’iniezione fatale siano veramente mortali. Stato della Georgia, 2 marzo 2015.
E’ la seconda volta che l’esecuzione di Kelly Gissendaner viene rinviata. Ma
non perché le sia stata risparmiata la vita, al contrario, perché non è
abbastanza sicuro che lei morirà subito. Nel primo caso, c’entrava il maltempo.
Pare che con tuoni e lampi non si uccide nessuno.
Le autorità del carcere in cui la donna è rinchiusa chiamano
«cautela» l’accurata verifica della potenza del veleno. Se pensiamo in effetti
a quello che è accaduto a Clayton Lockett in Oklahoma, alla sua terribile
agonia durata interminabili 43 minuti (alla fine è morto per un attacco di
cuore), è giusto che ci sia un eccesso di «cautela». Eppure questa morte
continuamente interrotta e differita porta in sé una differente crudeltà sulla
quale non possiamo non soffermarci. Kelly Gissendaner, che oggi ha 46 anni,
sarebbe la prima donna ad essere giustiziata in Georgia negli ultimi 70 anni
(nello stato americano la pena capitale è stata reintrodotta nel 1976).
Tutte le testimonianze raccolte dai
suoi legali hanno disegnato con una certa sicurezza lo scenario dell’omicidio:
non è stata lei ad uccidere il marito Douglas, per la cui morte paga con una
condanna alla pena capitale. L’esecutore materiale dell’assassinio è stato il
suo amante di allora, Gregory Bruce Owen, che pattuì una condanna all’ergastolo
(ma in realtà uscirà di cella tra 8 anni) dando tutta la colpa alla donna.
Strana, tremenda storia, quella di Kelly Gissendaner, madre di tre figli, la
cui sorte ha mobilitato migliaia di attivisti e religiosi (in carcere Kelly ha
abbracciato la fede cristiana). Inutilmente. Qualcuno, qui, doveva pur pagare
morire, e a morire sarebbe stata lei. Questo sembra essere il ragionamento che
sta dietro la decisione del Georgia Department of Correction. L’ultima parola
non però è ancora detta perché le due “interruzioni” dell’esecuzione fatale
potrebbero giovare alla donna condannata, poiché si è in attesa della risposta
della Corte Suprema degli Stati Uniti all’appello presentato in extremis dai
legali della Gissendaner. E se alla fine ce la facesse? Forse Kelly non deve
morire, ma in queste ore la donna sa soltanto di essere sopravvissuta ad una
agonia inumana, senza che questo abbia significato per lei una restituzione
della vita. I fatti per i quali la donna è condannata risalgono al 1997. E
proprio non si comprende questo accanimento nei confronti di Kelly Gissendaner,
che ha mostrato di non essere in nessun modo pericolosa. Eppure dovrebbe esser
servita la lezione di Lena Baker, l’ultima donna condannata a morte in Georgia.
Era 1945. Lena era una cameriera afro-americana condannata da una giuria di
uomini bianchi per aver ucciso un uomo che la teneva prigioniera con ricatti e
minacce fisiche. In quell’epoca, una donna afro-americana era all’ultimo
livello della scala sociale. Che cosa poteva valere la sua parola nella società
degli uomini? La sua condanna a morte venne eseguita senza troppi sforzi. Ma
siccome la Georgia è dotata anche di una Commissione per la Grazia, è stata
questa a riaprire il caso nel 2004 e a conferire ”la grazia postuma” a
Lena Baker. Con la motivazione: «Fu commesso un errore molto grave».
Sessant’anni per riabilitare un’anima. Dobbiamo aspettare che anche Kelly Gissendaner
muoia, in uno Stato che non condanna mai le sue donne alla pena capitale
(mentre dal 1976 gli uomini che hanno pagato con la vita sono stati 1.400), e
che ha già «commesso un grave errore» nel passato, per attendere tra qualche
decennio una grazia postuma? No, Kelly non deve morire.
(Pubblicato sul "Garantista")
1 commento:
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