sabato 21 marzo 2015

Peter Brook, 90 anni di ininterrotto stupore




Peter Brook ha compiuto 90 anni. E mentre scriviamo questa semplice frase, ci accorgiamo che non si accompagna al pensiero automatico: andiamo a vederlo, a sentirlo, prima che sia troppo tardi. Non perché questo non possa essere un desiderio legittimo, ma perché da tempo il regista inglese – naturalizzato francese - ci ha abituato a pensare che la vecchiaia è una pura convenzione, che fino all’ultimo momento della vita si può aprire una finestra sul futuro. E che persino la morte, in fondo, fa parte del ciclo naturale delle cose. Della vita in sé, Brook ha tenuto sempre grandissimo conto. Al punto da considerare il teatro stesso come una affermazione della sacralità degli esseri viventi: «La prima qualità di uno spettacolo è la sua vitalità; la seconda, nella sua immediata comprensibilità». Pacifista, fiero oppositore di ogni forma di guerra e di sopraffazione, Peter Brook è nato il 21 marzo del 1925 a Londra da un padre russo costretto ad emigrare dal suo paese come dissidente politico. Cominciò a lavorare subito in teatro, diventando a soli 20 anni il direttore del Covent Garden. Ed è del 1955 lo spettacolo che ha richiamato l’attenzione internazionale, quel “Tito Andronico” in cui per la prima volta il palcoscenico si rivelava come “spazio vuoto”, un luogo in cui far incontrare su una linea immaginaria, una corda tesa, lo sguardo di attore e spettatore: poiché senza colui che assiste nulla può accadere. 
«Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale» scriverà qualche anno più tardi, nel 1968, in  “The empty space”, un libro che tuttora rimane una bussola non solo per chi si avvicina professionalmente al teatro ma anche per chi considera il dispositivo scenico come una forma ancestrale, e immediata di conoscenza. 
Dal 1970 Peter Brook vive a Parigi. Nel 1974 ha riaperto quel bellissimo teatro che è  Les Bouffes du Nord, motore creativo della scena europea, che era rimasto chiuso dal 1946, e di cui sarebbe stato il direttore artistico fino al 2010. « Tutto intorno non c’era niente…Il teatro era là, bruciacchiato, macchiato dalla pioggia, tappezzato di buchi, e tuttavia nobile, umano, rosso incandescente, bellissimo: Les Bouffes du Nord» (questo il ricordo del primo sguardo).  
Come opera d’inaugurazione, scelse “Timone d’Atene”, nell’adattamento di Jean Claude Carrière. Ancora una volta Shakespeare. Non è stato ovviamente l’unico autore frequentato dal maestro inglese (il “Marat/Sade” di Peter Weiss  nel 1964,  “The conference of the birds” di Farid ad-din Attar del 1979, il “Mahabharata”, vera esperienza epica datata 1985, segnano, solo per fare alcuni esempi, tre tappe fondamentali del suo teatro) eppure la scrittura shakespeariana è stata la vera compagna di vita di Brook. In un altro importante libro, “The shifting point” (traduzione italiana, “Il punto in movimento”), che raccoglie scritti dal 1946 al 1947, cominciava così uno dei capitoli: «Shakespeare non è una noia»: alludeva a decenni di messe in scena sepolcrali. E molti anni più tardi avrebbe scritto un altro libro intitolato “La qualità del perdono, riflessioni su Shakespeare”. 
«Le opere di Shekespeare hanno questa caratteristica: non vi è interpretazione, ma la cosa in sé» dichiara. 
Tutta l’opera di Brook segue questa legge misteriosa. Sia che faccia Shakespeare sia che si avvicini ad altro, all’Africa  - altro grande territorio frequentato tutta la vita da Brook, sia nella scelta degli attori che dei testi - o all’Oriente.  Non è mai interpretazione. E’ “la cosa in sé”. E’ per questo che, anche in Italia, i teatri che hanno ospitato i suoi spettacoli hanno accolto spettatori di tutte le età, anche giovanissimi, che magari non sanno niente di Brook ma sono attratti dalla verità e dalla semplicità delle sue opere, che nascono da una concezione non autoritaria della regia intesa come pura opera di “distillazione” (un’idea che condivide con Ermanno Olmi, suo grande amico).
Nel 2011, il regista inglese aveva annunciato l’addio alle scene. Ci precipitammo al Teatro Argentina di Roma, dove veniva rappresentata una sua rilettura del  “Flauto magico”, opera di «magica fragilità» - come l’aveva definita il critico e storico Georges Banu-, in cui l’unione di Tamino e Pamina veniva letta attraverso lo sguardo di un vecchio/bambino che costruisce sulla sabbia la sua idea di città fondata sull’amore. Un movimento leggero d’ala, un umanissimo incantesimo. Che in realtà non era un addio. In questi ultimi anni, Peter Brook si è dedicato al mistero del cervello umano, realizzando nel 2014 “The valley of astonishment”, un’opera sulle tante forme di sinestesia (più di 150)  che parte dall’osservazione di una creatura la cui malattia non indica un deficit, ma una qualità umana più raffinata. Il buffo personaggio di Sammy, interpretato dalla bravissima Kathryn Hunter (la stessa attrice che recitava “Fragments”, spettacolo che è arrivato con successo anche in Italia, mostrandoci un aspetto ironico della scrittura beckettiana, che in genere viene invece affrontata in modo nero e dogmatico), ha una memoria eccezionale e di se stessa dice: «Sono un fenomeno».  Non è la prima volta che Brook si interessa alla mente di soggetti neurologicamente sofferenti, lo fece già con “The Man Who” (spettacolo del 1993) ispirato all’opera di Oliver Sacks. «Il teatro esiste per stupirci e per combinare due opposti elementi, il familiare e lo straordinario –  ha spiegato il grande regista, che non vuole essere chiamato maestro – E’ per questo che mi sono avventurato nei segreti del cervello umano. L’ho fatto tanti anni fa con “The man who”. E stavolta, percorrendo le montagne e le valli del cervello umano, siamo arrivati nella sesta valle, quella dello stupore.  I nostri piedi sono incollati al terreno, ma passo dopo passo  penetriamo sempre di più dentro lo sconosciuto».
Passo dopo passo. Gesto dopo gesto. Stupore dopo stupore. Oggi, dall’alba dei suoi 90 anni, Brook guarda oltre di sé e tende qualche nuova corda. Per aiutarci a ricordarci come è fatto un uomo e quale meraviglioso mistero egli abiti. «La corda tesa è l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro. Per mantenere l’equilibrio, un funambolo deve tener conto di due cose: avere ben presente il punto d’arrivo e al tempo stesso badare ai lati. Oscillare senza mai perdere la meta. Altrimenti cade. Vale nel teatro come nella vita».
  (pubblicato su "Il Garantista")     

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